CREUZE n 21 - Un disastro annunciato - di Massimo Quaini

È veramente scoraggiante sentire ad ogni frana ed alluvione le solite giustificazioni sulla eccezionalità o anomalia dell’evento climatico e quindi sulla fatalità delle conseguenze.

No, le anomalie non sono del clima ma delle nostre amministrazioni che

, a fronte di eventi che ormai si ripetono a cadenze così ravvicinate da non poter più essere considerati eccezionali, si dimostrano incapaci di affrontare il problema nell’unico modo serio: cambiare le politiche, dare la priorità alla sicurezza del territorio e dell’ambiente, investire nella protezione civile e nella manutenzione del territorio. Puntare sulla prevenzione piuttosto che affidarsi al cielo e alla benignità del clima!

 

Il discorso vale per tutta la Liguria e senza grandi differenze fra Sinistra e Destra (anche se fra gli amministratori di sinistra qualche voce fuori dal coro c’è, impotente). La distribuzione degli eventi sul territorio lo dimostra: il Ponente non è meno colpito dell’estremo Levante o del Chiavarese o del Genovesato e interessa Amministrazioni tanto di centro-sinistra quanto di centro-destra.

La politica regionale, da cui dipendono in gran parte oggi e ancor più in futuro in assenza delle province le amministrazioni locali, è da questo punto vista del tutto carente, come dimostrano tanti casi locali: dalla cronica situazione di Ceriana alla scandalosa approvazione del centro commerciale di Brugnato. L’Assessorato all’Ambiente, come quello all’Agricoltura fanno quello che possono, ma manca complessivamente e più in alto una linea politica non subalterna agli interessi speculativi e ai poteri forti. Come sempre accade nel nostro paese, anche in questa occasione è solo dalla magistratura che possiamo aspettarci discorsi chiari sulle responsabilità e la denuncia delle cause reali.

Che cosa ha fatto la Regione in relazione alle lottizzazioni di Andora e alle tante altre situazioni dove l’evento potrebbe ripetersi? Quello che oggi dice Burlando è: useremo i fondi del Piano di sviluppo rurale per sanare queste situazioni. Ma quei fondi dovrebbero servire per sanare a monte del dissesto, e non a valle, per prevenirne i fenomeni con lo sviluppo di presidî agricoli. A differenza di altre regioni, in Liguria non si è mai voluto costruire una rete di presidî idrogeologici e agricoli che tenessero sotto controllo un territorio estremamente fragile.

Bisognerebbe anche riflettere sull’abbinamento fra disastro ferroviario e disastro ambientale diffuso. A monte c’è la stessa visione politica. Come nella ferrovia si è finanziata solo l’alta velocità (TAV) e si è abbandonata la vecchia rete nazionale che serve ogni giorno milioni di cittadini, così nella nostra regione si pensa solo a finanziare le grandi opere che sono al servizio di Genova e dei maggiori porti e si lascia in abbandono l’intera rete ferroviaria e stradale al servizio dell’intera popolazione regionale. Le risorse sono quello che sono: investendo tutto nelle grandi opere (che avrebbero alternative più economiche e di realizzazione più rapida) si costringe la popolazione sparsa sul territorio ad abbandonare le proprie case. Così si ottiene l’effetto di diradare sempre di più la presenza sul territorio e si nega la possibilità di ripopolare le campagne con efficaci presidî agricoli.

Si chiudono gli occhi di fronte alla certezza ormai acquisita per cui non è possibile tenere in piedi un territorio fragile e profondamente umanizzato favorendo la sua “naturalizzazione” o abbandono e intervenendo con costose e quindi impossibili opere di ingegneria, ma solo riattivando le tradizionali e capillari sistemazioni del suolo e delle acque. Tutti sanno, meno che i nostri politici, che le città e le pianure si difendono dalle acque operando nella montagna.

Burlando e Paita dovrebbero avere il coraggio e l’onestà di dire che queste che abbiamo oggi sotto gli occhi sono le conseguenze inevitabili della loro politica, non solo miope ma cieca, e riconoscere che in assenza di politiche alternative dobbiamo aspettarci altri disastri.

Le politiche alternative non sono impossibili, basta orientare in maniera diversa la spesa e avere una visione diversa delle priorità e magari, se non è pretendere troppo, un diverso modello di sviluppo, visto che quello attuale è da tempo in profonda crisi.

Non ho parlato di Genova, ma il caso di Genova è assolutamente paradigmatico. Il PUC rappresenta una grande occasione per cambiare il verso delle politiche finora prevalenti, ma le vecchie incrostazioni ideologiche, politiche e urbanistiche lo stanno impedendo. L’Assessore all’Urbanistica e gli uffici stanno facendo forti resistenze ad accettare le osservazioni e sollecitazioni che vengono innanzitutto dagli Assessorati all’Ambiente e all’Agricoltura della Regione. Resistenze nell’applicazione rigorosa della VAS, per esempio. Resistenze nel considerare il Comune di Genova anche dal punto di vista agricolo.

Ancora più forti ed esplicite sono le sollecitazioni che vengono dalla Rete dei Comitati che si sono riuniti attorno a “Salviamo il paesaggio” e hanno presentato precise osservazioni e alternative. Lungi dall’essere “talebani” (come sono stati accusati di essere dall’Assessore Bernini), fanno in realtà propri i principi e obiettivi del documento fondativo del PUC in ordine al rilancio e valorizzazione del territorio rurale e combattono la battaglia più giusta e fondata per convincere il Comune che non c’è possibilità di far stare insieme le villette e l’agricoltura.

Anche in questo caso la cecità consiste nel non vedere quanto la storia e la realtà del territorio dimostrano: le potenzialità di un settore, quello delle produzioni agricole, in cui i giovani sono i primi a credere. Sia quei giovani che stanno sul territorio e perseverano a coltivare la terra in mezzo all’indifferenza di coloro che dovrebbero sostenerli, sia quei giovani a cui con queste politiche comunali si nega l’accesso alla terra.

Nei giorni scorsi ho conosciuto a un convegno l’Assessore all’Urbanistica del Comune di Roma. Si gloriava del fatto che il suo è il comune agricolo più grande d’Italia e che il suo primo obiettivo è diventato quello di fermare il consumo di suolo nella Campagna romana e valorizzare quanto resta del paesaggio rurale. Stando così le cose proporrei di mandare qualcuno dei nostri Amministratori e tecnici troppo sordi a queste istanze a scuola dalla nuova Giunta di Marino.

(liberamente tratto da La Repubblica, 24 gennaio 2014)

 


                                                                                                       

 

 

Salvare le coste con l’agricoltura - di Federico Rampini 

Per salvare la costa ligure dobbiamo anche puntare sull’agricoltura. Contro le frane e il degrado che moltiplica i danni, bisogna tornare ad accudire i campi. L’idea me l’hanno data alcuni residenti delle Cinque Terre. Le Cinque Terre devono la loro bellezza paesaggistica anche al “presidio” di coltivazioni tradizionali, che hanno garantito la manutenzione delle fasce, il consolidamento dei muretti tradizionali, e ovviamente un patrimonio di alberi le cui radici sono il più antico ed efficace “stabilizzatore” di terreni. Molti terreni agricoli però rischiano l’abbandono, via via che si ritirano dall’attività le generazioni anziane dei coltivatori. È fondamentale garantire due cose: da una parte che ci sia un ricambio generazionale; dall’altra che sia possibile effettuare un passaggio veloce delle proprietà dei terreni.

La riscoperta dell’agricoltura da parte dei giovani poteva sembrare un’utopia fino a qualche decennio fa. A parte la breve parentesi delle comuni hippy, dagli anni Sessanta fino agli anni Novanta l’Occidente ha vissuto uno spopolamento delle aree rurali, malamente compensato dall’assalto del cemento per residenze secondarie ad uso dei villeggianti. È una storia che abbiamo visto in tutte le coste del Mediterraneo. Solo al passaggio del millennio ha cominciato a maturare un evento nuovo: un insieme di tendenze sia economiche, sia culturali e tecnologiche, che ha reso il ritorno ai campi una prospettiva realistica. C’è stato il movimento verso l’agricoltura biologica, unito allo slogan “chilometro zero”, l’attenzione alla sostenibilità.

L’uso di Intemet ha consentito di unire l’attività agricola a quella turistica raggiungendo un pubblico di potenziali visitatori su scala globale. E queste tendenze hanno incrociato anche nuove sensibilità etiche, una rimessa in discussione del modello di sviluppo distruttivo che abbiamo visto implodere nel 2008.

 

Tornando alla Liguria, l’insieme di quelle tendenze che si sviluppano a livello mondiale, può avere una ricaduta positiva negli angoli più belli e più fragili della Riviera ligure. Contro le frane, contro il degrado che moltiplica i danni a ogni nubifragio, bisogna tornare ad accudire amorevolmente i campi. E questo può diventare il compito di una generazione nuova, che interpreti il ritorno alla terra non come una moda eccentrica, bensì come un’attività economicamente redditizia, appagante per la qualità della vita e lo status sociale. 

(tratto liberamente da La Repubblica, 27 gennaio 2014)