da Creuze di Pieve - Aprile 2008
Sappiamo il significato delle parole e con dolore usiamo una parola forte
per indicare quella che è oggi la caratteristica con cui Pieve si offre
agli occhi dei suoi cittadini e dei foresti che nei fine settimana
percorrono le sue creuze.
Sappiamo anche che l’abbinamento del titolo potrebbe addirittura apparire blasfemo, visto che il nome Pieve evoca ricordi lontani di secoli cristiani in Liguria, mentre l’aggettivo indecente,
secondo il dizionario della lingua italiana, significa: “chi offende le
norme e i principi della morale radicati in un determinato luogo e
tempo”.
In che cosa consiste l'indecenza di Pieve?
Immaginiamo un cittadino che per rigenerare il corpo e lo spirito una
bella domenica, giorno dedicato al Signore, scenda alla stazione di
Pontetto e immettendosi in via alla Chiesa
decida di risalire alla Pieve e di qui proseguire fino a Santa Croce.
Che cosa gli tocca di vedere in qeusto itinerario che più cristiano non
potrebbe essere?
La prima indecenza la incontra subito, sotto l’aspetto di una delle tante incompiute: la vantata sede dei carabinieri nell’ex-edificio Orlane.
Le incompiute sono una delle bellezze più tipiche di Pieve. Un’altra la
incontrerebbe se invece di affidarsi ai suoi piedi si affidasse alla
macchina: appena imboccata via Roma incontrerebbe l’incompiuta Villa Betania e alle sue spalle l’operoso cantiere del Comune
e continuando a risalire fra tracce di cantieri in corso e vecchi di
anni si troverebbe di fronte all’apoteosi del tipico paesaggio pievese:
lo sconvolgente e sconvolto terreno fra l’ultima curva di via Roma e
via Chiossa (intorno a quella che i pievesi chiamavano e ancora
chiamano “Villa dei Pegua”).
Torniamo
al nostro turista pedonale. Instradato in via alla Chiesa deve badare
bene ad evitare le cacche dei cani: ecco un’altra indecenza che lascia
indifferenti le autorità. A questo punto inizia a salire fra muri
antichi di ville, bei palazzotti, giardini di aranci e limoni e
lussureggiante vegetazione tropicale sempre in fiore. Potrà finalmente
il suo occhio posarsi su un paesaggio paradisiaco, come l’appartenenza
di Pieve al golfo Paradiso gli promette, e indi meditare sulla naturale
bontà del genere umano? No, non può! Non ha fatto cento metri che
accanto a un bel campo di fave e piselli incontra un primo cantiere
edile che senza alcun cartello che possa soddisfare la sua curiosità sta elevando nuovi volumi.
Prosegue
e avendo incrociato uno scooter, constata senza particolare acrimonia
che il progresso avanza anche qui e che l’antica scalinata è stata
allargata e spianata e che i risultati, questa volta, sono del tutto
accettabili. Fra qualche anno la patina del tempo avrà provveduto a
fare anche di questo tratto una tipica creuza pievese.
Incrociando un distinto signore - che parla come se fosse stato sindaco
fino a ieri - gli manifesta la preoccupazione che in futuro la creuza,
vista anche l’importanza dei suoi residenti, possa trasformarsi in via
carrabile, ma ha l’assicurazione che ciò non avverrà mai. Si
studieranno - dice - altri sistemi più congeniali all’ambiente:
ascensori sotterranei, monorotaie, ecc.
Scuotendo
la testa e facendo attenzione a non inciampare nelle buche dell’asfalto
del tratto che porta alla chiesa pievana, il nostro pellegrino si avvia
verso la piazza per comprarsi la focaccia e
fare uno spuntino al bar. In questo campo per fortuna la qualità non è
per nulla decaduta, come, e non può fare a meno di notarlo, è invece
decaduta nell’aspetto rinnovato della piazza S. Michele e nella trasformazione dell’antico ristorante Picco,
che ha richiesto troppo tempo e che ancora non può dirsi del tutto
compiuta. Nella piazza nota i vistosi effetti di una strage di piante
secolari di cui non sa darsi ragione.
Rifocillato
nella carne ma non nello spirito, dalla piazza dedicata al grande santo
protettore del popolo eletto, inizia a risalire verso il verde colle di
Santa Croce. Che cosa incontra il suo sguardo alla prima curva e appena
a monte del cimitero? Un
orribile cratere, una grande ferita, di cui proprio non riesce a capire
l’utilità. Chi gli dice che si sta rettificando il tracciato della
strada veicolare, chi gli parla della costruzione di un nuovo
prestigioso ristorante. Chi ancora gli dice che questo è solo l’inizio
della fine: in questa povera area, evidentemente la più strategica di
Pieve, il PRG prevede grandi lavori: ampi posteggi, un nuovo quartiere
di edilizia convenzionata e il tutto con la benedizione della Curia,
delle Coop e di tutti i partiti nazionali vecchi e nuovi.
Di
fronte a tanto scempio, attuale e futuro, un dubbio doloroso attanaglia
la sua mite, cristiana natura: che S. Michele Arcangelo, capo degli
angeli buoni contro Lucifero e le forze del male, abbia abbandonato i
Pievesi? Sia volato verso altri lidi e terre più felici dove
l’indecenza non è così inguaribile e meno offende “le norme e i
principi della morale radicati nel luogo”?
Ma gli basta dare le spalle allo scempio e incamminarsi per via Massone per
scacciare il dubbio e continuare a sperare nella bontà degli uomini e
degli angeli. Man mano che sale la veduta si allarga e la mole del
Monte di Portofino conforta il nostro pellegrino. Ma quando pensa che
le indecenze si siano esaurite eccolo incontrarne un’altra:
all’incrocio di quattro creuze e un rio ecco altri sbancamenti e lavori che gli dicono essere sospesi da tempo
per ragioni non ben chiare ma comunque sempre attinenti problemi di
viabilità, posteggi, cantine interrate e chissà quali altri progetti
più o meno inconfessati.
A
questo punto si convince che è proprio vero: le vecchie divinità, anche
i geni e le ninfe dei luoghi che dall’antichità proteggevano i quadrivi
e i più piccoli corsi d’acqua, hanno abbandonato definitivamente il
territorio di Pieve e i nuovi dei che lo hanno ripopolato sono altri:
si chiamano denaro, speculazione edilizia, profitti e rendita, lusso e
comodità e via discorrendo. Le conseguenze gli appaiono non meno
chiare: degrado ambientale, privatizzazione di un bene comune come il
paesaggio, consumo graduale e inesorabile di una risorsa finita. Il
tutto, come gli viene rivelato da un manifesto che cita alcuni articoli
della Costituzione italiana, in un contesto molto poco angelico di
ricorsi alla magistratura, di conflitti fra vicini e fra alcuni
proprietari e il Comune.
Ma,
ormai lo sappiamo, il nostro pellegrino è cristianamente fiducioso
nella possibilità di un riscatto, crede nel paradiso. E' convinto che
non appena girerà le spalle alle ultime case troverà finalmente
lanatura benefica e la pace dello spirito. E così si incammina alla
volta del Santuario di Santa Croce nel ricordi di prati e boschetti ben
curati.
Lasciata
l’ultima casa dalla vista imperdibile - una casa che può essere solo il
rifugio di un moderno eremita - risale al santuario per un erto
sentiero che talvolta si perde fra alberi abbruciati e ciuffi odorosi
di timo. Anche questo paesaggio, pur privo di strade e edifici, lo
immalinconisce: l’abbandono e il conseguente degrado è totale. Nessuno
sembra più sfalciare gli antichi pascoli che circondano il santuario.
La vista di un gregge di pecore gli allargherebbe il cuore e magari gli
garantirebbe anche l’acquisto di una formaggetta. E’ invece un’aria di
morte, di decadenza irreversibile che sembra avvolgere tutto.
Il pellegrino che abbiamo visto aggirarsi nel
nostro territorio non è un’invenzione polemica. Una volta l’abbiamo
realmente incontrato mentre discendeva deluso dal colle di Santa Croce.
Volle lasciarci la riflessione che la gita al Santuario gli aveva
ispirato nella forma di un’ultima domanda che noi oggi giriamo agli
amministratori: PERCHÉ AVETE LASCIATO
METTERE IN CROCE IL VOSTRO PAESAGGIO, IL VOSTRO TERRITORIO, IN BASSO
DALLA SPECULAZIONE EDILIZIA E IN ALTO DALL’INCURIA E DALL’ABBANDONO?
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