Periodico dell'Associazione memorie & progetti

 

 
Costruiamo insieme il Progetto Pieve - di Massimo Quaini - Creuze di Pieve n 6 - Dicembre 2006 Gennaio 2007
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Il basso profilo della pianificazione territoriale

La Giunta Comunale, alla fine dell’anno scorso, ha avuto la tentazione di attuare la revisione del piano urbanistico comunale. Un incarico in tal senso • per la precisione di “aggiornamento del vigente Piano Regolatore” venne infatti affidato agli architetti Balletti, Giontoni e Peruggi, autori a diverso titolo del medesimo piano vigente.

A quanto si legge nello schema di disciplinare di incarico (Allegato E alla proposta di deliberazione), l’incarico si configurava come un impegnativo lavoro di adeguamento del quadro dispositivo e direttivo del piano, per il quale era proposto un compenso di oltre 36.000 euro ed erano definite precise scadenze. Se tutto fosse andato nel senso allora previsto oggi dovremmo avere “la bozza compiuta della variante parziale di aggiornamento del vigente PRG”.

Ma, al di fuori del burocratese, che cosa doveva essere questa variante e la relativa bozza? Di fatto, vista l’ampiezza delle verifiche di adeguatezza e delle indagini previste dagli art. 2 e 3 del disciplinare, si sarebbe trattato della bozza di un nuovo piano urbanistico. In effetti le indagini previste coprono l’intero quadro conoscitivo, direttivo e dispositivo di un piano pertinente al territorio di Pieve: dal rilievo del sistema degli elementi naturali e storico culturali del paesaggio alle situazioni di abbandono e degrado o incongruenti con tale sistema, dalla predisposizione di un sistema di monitoraggio delle trasformazioni in atto alla definizione dei criteri di intervento compatibili, per arrivare infine a un “abaco” o manuale delle buone pratiche in tema di recupero del patrimonio insediativo esistente e dei manufatti e delle sistemazioni agrarie del suolo e perfino ai modelli di gestione delle risorse territoriali. Peccato che un percorso tanto encomiabile e rilevante fosse tenuto nascosto alla cittadinanza e alla minoranza! La cosa che più stupisce in tutta questa storia è infatti che una delibera di tale rilevanza non sia mai stata portata alla discussione del Consiglio e che di conseguenza alla minoranza ne sia stata a lungo negata la conoscenza.

Come Associazione Memorie & Progetti preoccupata insieme alla lista Vivi Pieve di mantenere e incrementare la qualità della vita e del territorio di Pieve non ci sta bene il basso profilo che in questa occasione è stato attribuito alla pianificazione del territorio comunale, pur in presenza delle vicende critiche che l’hanno interessato (dalla frana di S. Gaetano ai progetti che hanno interessato piazza Rollino e piazza S. Michele fino ai fenomeni più o meno recenti di abusivismo). Non ci sta bene perché è totalmente in contrasto con i processi partecipativi che l’Amministrazione dice di voler promuovere. Non ci sta bene anche per ragioni formali e sostanziali, sulle quali ci soffermiamo a parte. Prendiamo comunque atto con soddisfazione che l’Amministrazione, come risulta dalla comunicazione del Sindaco Vicario alla lista Vivi Pieve del 28/9/2006, ha ritenuto di non precedere ulteriormente, visto che il percorso a suo tempo predisposto e parzialmente attuato determina “fraintendimenti” e “forzature”.

Siamo tutti urbanisti!

Noi pensiamo - e siamo convinti che così la pensino tutti i cittadini - che la revisione del PRG non sia da considerarsi un atto semplicemente dovuto e di basso profilo ma sia invece un atto di grande rilevanza politica, visto che il piano urbanistico comunale è pur sempre un disegno, un progetto, uno scenario che, oltre a condizionare la vita di tutti i pievesi di oggi, mira a prefigurare la Pieve che intendiamo consegnare ai nostri figli e nipoti.

Se questo è vero, vogliamo partire da qui per prospettare ai pievesi un’altra idea della pianificazione comunale. Chiediamoci per cominciare che cosa è o dovrebbe essere il PRG. Detto in sintesi e con parole semplice il piano urbanistico - secondo lo spirito della legge urbanistica regionale che disciplina tutti i livelli della pianificazione - dovrebbe essere la carta costituzionale di un territorio e della comunità che vi è insediata: l’insieme delle regole e degli indirizzi ai quali devono adeguarsi tanto le scelte degli amministratori quanto i comportamenti dei cittadini nella gestione del patrimonio paesistico e territoriale - il suolo, le acque, la vegetazione, l’insediamento e la viabilità, le attività produttive, i servizi e i valori paesaggistici ecc. - che gli amministratori e i cittadini sono chiamati a gestire e a utilizzare come buoni padri di famiglia moralmente tenuti a trasmettere alle generazioni future i beni patrimoniali nella loro integrità e al meglio della loro valorizzazione (che, si badi, non è solo di natura economica ma è innanzitutto culturale e affettiva).

Chi deve scrivere questa “costituzione” o questo “statuto” dei luoghi nei quali abitiamo e viviamo? Un tempo, nell’antico regime quando ancora non si parlava di democrazia, gli statuti comunali venivano approvati ed eventualmente modificati dall’assemblea dei capifamiglia che si riunivano nelle chiese o sotto un grande olmo come quello che campeggiava anche nella piazza di Pieve “sotto il quale nella bella stagione radunavasi il consiglio municipale” (come ancora scrive un cronista ottocentesco). Oggi che l’olmo non c’è più, come stanno le cose e come dovrebbero stare? Come dovrebbe avvenire la formazione del nuovo statuto-piano comunale di Pieve?

E’ certo che in questi anni l’urbanistica più avanzata ha molto discusso intorno a questo tema e, senza negare il ruolo dei tecnici e dei saperi degli specialisti (esperti di pianificazione, geologi, botanici, sociologi, economisti, storici, geografi, paesaggisti ecc.) spesso estranei al contesto locale, ha riconosciuto uno spazio sempre più rilevante al senso comune dell’abitante, ai cosiddetti “saperi locali”. In altre parole, nelle situazioni politicamente corrette, l’urbanistica si è posta il problema di non essere un corpo separato ed estraneo alla comunità locale ma al contrario una componente viva dei processi di formazione dell’opinione pubblica e della vita quotidiana. Si guardi a quanto è successo a Genova, nell’ultimo anno, con il cosiddetto “affresco” di Renzo Piano. Ovunque • meno che a Pieve? - la parola-chiave è diventata “partecipazione”: tanto partecipazione o condivisione dell’urbanistica alla vita dei cittadini, quanto partecipazione dei cittadini all’urbanistica. Perché tutti noi, proprio per la nostra qualità di abitanti di un territorio, siamo detentori di un sapere urbanistico, non meno che del diritto di partecipare alla formazione delle scelte. Perché solo in questo modo si superano tanto i tradizionali rapporti di sudditanza, quanto i canali privilegiati dei favoritismi incomprensibili al cittadino che si vede ingiustamente discriminato.

E’ evidente che la prima condizione perché possa esistere partecipazione è la trasparenza nelle decisioni e nei rapporti fra amministratori e amministrati e dunque che ci sia comunicazione, conoscenza reciproca fra un livello e l’altro. Che nessuno si trinceri dietro le barriere o i paraventi professionali e tecnici, che i progetti, a cominciare dal progetto complessivo, dal piano o scenario in cui si devono iscrivere le singole scelte e interventi, siano formati e discussi pubblicamente. Sempre che gli uni e gli altri ci siano, perché spesso è tipico dell’amministrazione pubblica evocare i grandi progetti e scenari nel periodo elettorale per poi dimenticarsene nella pratica quotidiana e sciogliere l’azione amministrativa in tanti atti più o meno casuali e dettati dalle contingenze o peggio dagli interessi più forti. Ma anche in questo caso, per quanto incoerente e implicito, un progetto o meglio un non-progetto esiste e va fatto emergere.

Una concezione alta e democratica della pianificazione

Nel corso del suo ultimo anno di attività, Creuze di Pieve e l’Associazione Memorie & Progetti si sono mossi in questa direzione: invitando politici nazionali, assessori regionali, sindaci, esperti di varie materie che con la loro esperienza riaprissero la discussione e contribuissero ad allargare e a rinforzare il senso di cittadinanza o più semplicemente, ma non meno utilmente, facendo uscire dal chiuso delle stanze del potere progetti, interventi, delibere ecc. Ora crediamo che sia possibile fare un ulteriore salto di qualità: costituire, rinsaldando i rapporti e contatti stabiliti, gruppi di lavoro che siano in grado di costruire i necessari aggiornamenti, revisioni e verifiche del piano urbanistico nel quadro di una concezione alta e democratica della pianificazione.

Perciò da queste pagine rivolgiamo l’invito a tutti i cittadini di buona volontà a costruire con noi e alla luce del sole le linee del “progetto Pieve della cittadinanza”, alternativo al progetto o non-progetto dell’attuale amministrazione e dei tecnici che amano lavorare nell’ombra. Non siamo noi a dirlo, sono i fatti.

Costruiamo insieme il progetto dei cittadini cominciando dalla prima verifica che deve essere rivolta a validare o meno il vecchio piano. Il Sindaco Vicario, sempre nella citata lettera, lo ritiene “ancora completamente attuale” in ordine “alle necessità di salvaguardare l’identità del nostro territorio”. Noi non ne siamo così convinti. Verificare la validità di uno strumento urbanistico significa anche valutare l’operato degli autori del Piano e dei professionisti che hanno accompagnato la sua applicazione. I piani non nascono dal nulla e non si applicano da soli. Il bilancio critico coinvolge dunque i loro autori e accompagnatori. Ma qui sorge un problema molto rilevante: a chi spetta fare questa verifica? Solo l’assuefazione al conflitto di interessi può far passare come normale l’idea che il bilancio e la verifica di adeguatezza del Piano possano essere fatti dai suoi autori e dai professionisti responsabili della sua gestione. In una società democratica, dovrebbe essere la sensibilità dei tecnici a farsi carico della questione, a fare cioè un passo indietro per lasciare ai cittadini, alle associazioni e ad esperti non coinvolti il diritto-dovere di legittimare o meno l’operato e l’efficacia del loro lavoro, valutando in piena libertà i risultati e le pratiche che il piano ha innescato.

Questa è la nostra concezione dell’urbanistica, quella che vorremmo fosse fatta propria dall’amministrazione. Un’urbanistica democratica e trasparente, ancorata alle conoscenze e alle aspirazioni della collettività e non dei comitati d’affari che si infiltrano nelle strutture pubbliche e che fanno sì che quando si deve approvare un nuovo Piano mezzo consiglio comunale è costretto a uscire dalla sala!! Perché proprio questo è ciò che spesso succede in molti comuni della nostra civilissima regione.

Un’urbanistica ancorata ai fatti e non alle visioni ideologiche di qualsiasi genere visto che il primo requisito di un buon piano deve essere non la fedeltà a una visione politica generale (che non sia l’idea generale di democrazia) ma la sua pertinenza a un particolare territorio, alle sue specifiche e uniche risorse. Un’urbanistica dunque che vuole rimanere coi piedi per terra e non farsi adescare dai discorsi elettorali sul “circolo virtuoso” o da altre vaghe promesse che sentiremo ripetere anche nei prossimi mesi secondo la miglior tradizione elettoralistica.

La nostra diversità

Il nostro non è un discorso astratto e tanto meno elettoralistico. Per noi la trasparenza non è una parola vuota, ma trae alimento dalla nostra diversità, dalla nostra diversa concezione della politica. Crediamo di averlo dimostrato col nostro impegno di tutti questi mesi. E siamo pronti a dimostrarlo anche in questa materia. Esiste • ed è uno dei luoghi strategici dell’amministrazione • la Commissione edilizia che dovrebbe verificare la legittimità e congruità delle pratiche edilizie anche e soprattutto grazie al supporto di esperti e rappresentanti di istituzioni e associazioni operanti in questo campo.

Giudicata dai risultati non ci pare che finora quella di Pieve abbia funzionato così o se ha funzionato vorremmo sapere come e quando ha espresso giudizi contrari alle pratiche edilizie più devastanti che in questi anni non sono mancate e che sono ancora sotto i nostri occhi. Noi pensiamo che in quanto commissione di garanzia dei diritti dei cittadini e dell’integrità del territorio debba avere una composizione più larga e diversificata di quella attuale per poter realmente funzionare come organo di controllo e di difesa del cittadino e della collettività.

In ogni caso, tornando alla revisione del PRG, ci sono domande alle quali oggi nessuno si può sottrarre: qual è il grado di soddisfazione degli utenti ed attori sociali in ordine all’attuazione dei progetti e delle norme del piano? Dalle lettere che abbiamo ricevuto non ci sembra alto. Il piano vigente ha sempre prodotto buone pratiche di gestione del territorio? Anche da questo punto di vista il bilancio ci sembra problematico e tale da innescare un’altra domanda: quali sono i buchi e le lacune che in questi anni il piano ha dimostrato? E allora: su quali basi e con quali nuovi indirizzi deve farsi la revisione del piano vigente? Infine: come è possibile rivedere, aggiornare il piano se attorno a queste e altre domande non si costruiscono luoghi pubblici di discussione e confronto aperti a tutta la cittadinanza?

Quale Pieve vogliamo costruire e consegnare alle generazioni future?

Non inseguiamo ideologie e non facciamo soltanto battaglie di principio (anche se queste sono talvolta necessarie). Abbiamo qualche idea sul futuro di Pieve. Cominciamo fin d’ora a sottoporla ai cittadini invitandoli a costruire con noi il progetto Pieve. Un progetto che risponda alla domanda alla quale l’amministrazione non ha dato finora risposta: quale Pieve vogliamo costruire e consegnare alle generazioni future? Una risposta che vorremmo vedere non tanto nei manifesti elettorali ma nei fatti, giorno per giorno.

La nostra Pieve non è la Pieve di cui le risorse e il patrimonio territoriale vengono consumati con l’applicazione di politiche settoriali che, anche a tacere dei maggiori interventi edilizi, premiano solo la valorizzazione economica del patrimonio immobiliare (ma fino a quando crescerà?) e i suoi corollari, viabilità e accessibilità veicolare, e spargono sul territorio una miriade di piccoli interventi per cantine interrate che diventano poi abitazioni (che richiedono nuove strade), box, posteggi, ampliamenti delle creuze.

Un quantità di interventi che, senza una visione d’insieme, producono effetti irreversibili. A un certo punto, come noto, la quantità si converte in qualità: raggiunta una certa soglia, il paesaggio, il territorio, l’identità dei luoghi si trasformano. Negando sé stessi diventano altro: diventano simili ai luoghi metropolitani dai quali si fugge o nei quali i pievesi sono ben contenti di non essersi mai trasferiti… E allora anche il valore economico del patrimonio immobiliare cala, cala sensibilmente.

La nostra non è neppure la Pieve che ritiene che esista ancora una nuova frontiera di “pionieri” dell’edilizia che, dopo aver trasformato i rustici e le stallette in ville miliardarie, le vecchie case unifamiliari in miniappartamenti o le fabbriche e le strutture ricettive in condomini (con gli ampliamenti del caso più o meno autorizzati), oggi prende di mira le serre e le cisterne, ampliando il parco delle seconde case e aggravando in prospettiva la circolazione e facendo diventare irrisolvibili i problemi di cui sopra. Invece di creare un “circolo virtuoso” ecco create le condizioni per un bel circolo vizioso!

Costruire un percorso nuovo

Noi non siamo, per principio, contrari a nessuno degli interventi che abbiamo appena evocato (tranne che, ovviamente, agli abusi e comportamenti illegali), sappiamo benissimo che un territorio e un paesaggio non si possono cristallizzare o museificare, ma siamo attenti agli effetti cumulativi e irreversibili e siamo convinti che per ognuno dei problemi che determinano gli interventi più dannosi esistono concrete possibilità alternative. Tanto per le possibilità occupazionali e abitative, quanto per il difficile problema della viabilità veicolare.

Siamo convinti che, per evitare i circoli viziosi in cui Pieve si sta avvitando, occorre costruire un percorso nuovo che ci porti a una visione d’insieme, a un progetto unitario che privilegi l'etica e gli interessi della collettività. Un approccio democratico e una visione sistemica, nel senso che l’insieme, il tutto sia considerato non come la somma aritmetica delle singole parti • una somma che si fa sempre tornare! - ma come il valore aggiunto da salvaguardare nel suo difficile equilibrio. Questo valore aggiunto sussiste ancora a Pieve ma ancora per poco e il suo equilibrio appare sempre più difficile da mantenere.

Che cosa è, che cosa significa questo “tutto”? Significa che non possiamo isolare un aspetto del territorio (per es. la circolazione) e considerarlo a sé stante, secondo la sua logica di espansione, perché questo modo di considerare il territorio porta alla sua distruzione. Il territorio, che non è uno spazio inesauribile e buono per tutti gli usi, può sopportare solo una certa densità di strade veicolari e un certo carico di macchine o altri mezzi di circolazione, andare oltre significa distruggere il territorio e l’equilibrio-armonia fra le diverse componenti. Lo stesso discorso vale anche per la densità edilizia. Sembrano concetti semplici e ovvii ma a Pieve non è così.

Governare bene un territorio significa porre dei limiti alla crescita quantitativa incontrollata (che spesso è nell’interesse solo di agenti economici esterni alla comunità locale) o, se si preferisce, ripensare lo sviluppo (che è cosa ben diversa dalla crescita quantitativa). L’abbiamo imparato per il mondo ma non sappiamo applicarlo a casa nostra. Ma • e qui cominciano le difficoltà - a differenza di quanto l’urbanistica ha spesso pensato, non esistono limiti standard validi ovunque: ogni territorio ha i suoi limiti, le sue fragilità. Per questo ogni piano è un’operazione molto delicata di analisi delle specificità, dell’individualità di un territorio e innanzitutto della sua fragilità, del suo stato di salute.

Ogni piano dovrebbe basarsi sullo studio approfondito della personalità di un territorio. Considerare un territorio come una persona, un individuo. Per questo si parla di “biografia” di un territorio e di ricerca sulle identità dei suoi luoghi come basi imprescindibili per fondare la parte più normativa e pratica di un piano. Se mancano queste indagini • e nei piani precedenti mancano • il progetto non vale un soldo bucato. In un recente passato l’amministrazione si è fatta forte di una convenzione con la Facoltà di Architettura: per quante richieste abbiamo fatto, (anche tramite la minoranza di Vivi Pieve), non abbiamo potuto prendere visione di alcun risultato collegato con alcuna convenzione con l'Università. E questo ci dispiace perché pensiamo che anche le indagini più specialistiche devono avere un senso per i cittadini e devono essere fatte in modo da poter ricadere positivamente sul territorio.

Paesaggio e identità del territorio di Pieve

In ogni caso, l’identità non è un abito che un’Amministrazione e tanto meno i suoi tecnici possano cucire addosso a un territorio, con qualche formula ad effetto come il “circolo virtuoso”, ma è il risultato della storia e della cultura locale: dei saperi e delle pratiche di uso o attivazione delle risorse locali che nel tempo hanno costruito il paesaggio umano. Anche quelle che erroneamente chiamiamo bellezze naturali sono in realtà il frutto di queste pratiche e dei connessi saperi. Sono il frutto del lavoro umano: lavoro di generazioni che hanno elevato chilometri e chilometri di muretti a secco, piantato ulivi e giardini, regimentato le acque, aperto scali, spietrato prati e pascoli, battuto sentieri e creuze per collegare il mare alla montagna e i nuclei fra loro. Questo e non altro è il paesaggio-identità sul quale siamo chiamati ad operare. Oggi come ieri.

Ma, rispetto al passato c’è un’importante differenza sulla quale non si riflette abbastanza: oggi questo paesaggio è in gran parte un involucro vuoto, privo cioè del lavoro tradizionale, agricolo e pastorale (ma anche marinaro), che lo ha per secoli mantenuto e lo ha consegnato a generazioni che progressivamente si sono rivolte ad altre occupazioni, lasciando agli anziani la cura di un “paesaggio” che tuttavia continua a rappresentare l’identità e il patrimonio più prezioso di Pieve anche in termini economici. Che cosa sarebbe Pieve senza questo paesaggio?

Il primo problema del territorio di Pieve • e non solo di Pieve - sta dunque nell’esistenza di un paesaggio che è un involucro non solo vuoto ma anche fragile. Fragile non solo per l’azione degli agenti climatici (che ci sono sempre stati) ma soprattutto perché è diventato lo scenario di attività e generi di vita non più compatibili con esso o non sufficienti al suo mantenimento: lo scenario di attività residenziali o turistiche di contemplazione/fruizione piuttosto che di riattivazione o conservazione attiva del paesaggio. L’unica forma di riattivazione si concentra sugli edifici che non hanno più una funzione produttiva ma quasi esclusivamente residenziale: i rustici e le stallette sono diventati ville chiuse per la maggior parte dell’anno, le serre o altri edifici tendono a diventare abitazioni, le nuove cantine interrate piuttosto che in funzione del lavoro agricolo sono costruite per uso abitativo. I terrazzamenti si ricostruiscono alla moderna • spesso con effetti più devastanti delle piccole frane che li coinvolgono • quando c’è la convenienza a trasformarli in supporti di abitazioni o per far posto a box e posteggi.

Questi sono i processi in atto: per ora ci limitiamo a descriverli, senza valutarli. Abbiamo già detto che non siamo contrari per partito preso e che il nostro fine non è quello di fare del territorio un deserto o di lasciare che il paesaggio divenga un involucro sempre più vuoto. Sappiamo bene che se rimane vuoto non sta in piedi. Ma siamo anche convinti del fatto che esso non può tornare a vivere solo grazie alle pratiche e alle tecniche insediative (più o meno spontanee o approvate dall’Amministrazione) che finora l’hanno rimodellato in maniera caotica e con molti effetti secondari sulla stabilità. Sappiamo cioè che diventa sempre più necessario proporre, scoprire delle alternative all’interno e in coerenza con un nuovo sistema territoriale locale.

Andare oltre il paesaggio e rivolgersi alla storia

Questa è la fenomenologia che abbiamo sotto gli occhi e di cui le fotografie, volutamente intercalate al testo senza la loro precisa localizzazione, rappresentano solo alcune delle manifestazioni più evidenti. Sono manifestazioni che costatiamo ogni giorno attorno a noi con un senso di impotenza. Come reagire, allora, come trasformare il senso di impotenza in un progetto che abbia condizioni di fattibilità? Il percorso da fare non è facile. E’ un percorso lungo che richiede di praticare strade che finora non sono state battute.

Il suo primo, necessario punto di partenza consiste nell’andare oltre il paesaggio e nel rivolgerci alla storia e, senza paura, alla cultura del passato, se è vero, come di recente ha detto uno scrittore, che qui sta il discrimine più netto fra la civiltà e la barbarie, perché “la cultura del passato rappresenta il luogo delle nostre radici e quindi è per antonomasia il luogo del senso”. E’ ciò che dà senso alla collettività e a tutto il nostro discorso.

Ma perché occorre andare oltre il paesaggio? In genere è proprio questo che gli architetti stentano a capire. Il paesaggio è soprattutto fatto di immagini e le immagini hanno un limite: anche quando le facciamo parlare non ci dicono tutto di un territorio, ci aiutano a descriverlo ma non ce lo spiegano. Per spiegarlo dobbiamo andare oltre il paesaggio e costruire l’idea del sistema territoriale locale: cioè l’insieme degli elementi coordinati fra loro in modo da formare un complesso organico, una totalità, soggetta a certe regole di funzionamento. Il problema che ci si deve porre è proprio questo: capire insieme quali siano le regole, alcune delle regole che spiegano il sistema territoriale di Pieve oggi. Ma, ormai lo sappiamo, per arrivare a questo risultato dobbiamo confrontare il paesaggio attuale con il sistema territoriale locale del passato, perché è questo sistema del passato che ha in gran parte generato il paesaggio con cui abbiamo ancora a che fare oggi (il sistema della viabilità, degli insediamenti, le sistemazioni agrarie del suolo e delle acque, gli assetti della vegetazione ecc.) e anche la nostra identità.

Dobbiamo essere consapevoli che è proprio in questo scarto temporale, in questa sfasatura, che sta il problema della difficile gestione del territorio di Pieve. Possiamo esprimere questo concetto con la seguente ipotesi di lavoro: se il nostro paesaggio è il frutto del lavoro delle generazioni che ci hanno preceduto e del sistema territoriale che esse in gran parte controllavano e in cui si riconoscevano ma che non esiste più, noi oggi, a causa di questa sfasatura storica e in quanto appartenenti a un altro sistema territoriale che non controlliamo più perché in larga misura esterno, ci troviamo nella condizione di non essere neppure in grado di controllare il paesaggio verso il quale evolve il territorio di Pieve e quel che è ancora più grave la nostra identità culturale.

In altre parole, possiamo dire che finora non siamo stati in grado di sostituire il sistema tradizionale, che aveva garantito la stabilità di questo territorio per alcuni secoli e che nel Novecento è andato in crisi, con un nuovo sistema coerente e sostenibile (durevole) e dunque controllabile. Ma questa, per quanto difficile da creare, è la condizione che ci rende capaci di mantenere, meglio di incrementare il patrimonio territoriale che ci è stato consegnato. Incrementarlo, migliorarlo e non consumarlo progressivamente.

Che cosa vogliamo chiedere al “ristorante del paesaggio”?

La maggiore difficoltà della visione che proponiamo deriva dal fatto che in una crisi così profonda la possibilità di salvezza risiede in un modello di sviluppo locale, in un progetto che ancora non esiste e che dobbiamo costruire insieme. Possibilmente con idee chiare su alcuni punti essenziali. Una di queste idee la possiamo rendere più chiara con la metafora del ristorante.

Di recente un bravo giornalista, Edoardo Raspelli, ha voluto ricordare sulla “Stampa” una verità scomoda: “Abbiamo voluto trasformare l’Italia, nel secondo dopoguerra, in un grande paese industriale? Non ci siamo riusciti ma in compenso abbiamo distrutto l’Italia, i suoi paesaggi e la sua agricoltura”. Oggi, pentiti di queste distruzioni “ci pavoneggiamo di avere il numero più grande d’Europa di prodotti DOP o simili; ci glorifichiamo delle migliaia di Prodotti Agroalimentari Tradizionali, ma ci raccontiamo un sacco di bugie. La realtà è quella che ci raccontano i supermercati dove le ciliegie sono turche, le mele cilene, la mozzarella più venduta in Italia è fatta a Riga, in Lettonia. La realtà è quella di un paese in cui il fieno si lascia marcire nei pascoli e perfino i bovini degli allevamenti piemontesi e valdostani si alimentano con il fieno della Spagna”. Queste, conclude il giornalista, sono alcune delle reticenze e degli equivoci nati nella grande industria, indotti dalla grande distribuzione e spacciati dalla ristorazione. Anche Pieve fa parte di questo sistema, ovviamente, ma quello che ovunque oggi si cerca di fare è limitare i danni, non estendere il sistema anche a livello locale e agli aspetti che ci riguardano.

In altri termini, si tratta di capire se vogliamo farci ingannare e truffare anche sul paesaggio e lasciare che tutto venga omologato dalla stessa regia del mercato globale, della globalizzazione. E anche di decidere se al “ristorante del paesaggio” ci vogliamo andare per sfamarci con qualunque cosa (chiamando restauro paesaggistico un’operazione speculativa) o per il piacere di godere e conservare qualcosa di unico, di irripetibile.

Questo qualcosa è racchiuso nella storia e sta ben custodito nello stesso paesaggio. Per farlo venire fuori dobbiamo possederne le chiavi: le chiavi della storia. A questo fine, accanto a questa che vuol essere solo la necessaria cornice del quadro, forniamo a parte qualche elemento del quadro che dovremmo ricostruire se vogliamo realizzare la Pieve che in fondo tutti sogniamo: un piccolo Paradiso in pace con l’ambiente che gli antenati hanno scelto e costruito per noi e dunque in pace anche con la sua storia. (1-continua)   

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